Sintobiografia e sintoscritti di Enrichetta Gnocchi

 

 

Nasco in terra di Calabria, a Vibo Valentia, il 09/06/1958.
Ho avuto fin dalla tenerissima età la fortuna di viaggiare molto;
poi, nel ’71, mi sono definitivamente stabilita a Reggio Emilia, dove ho conseguito il diploma di Interprete Traduttrice. In molti hanno cercato di farmi finire il Liceo Scientifico, ma hanno fallito miseramente. Subito dopo il diploma di Interprete, come agnello tra i lupi, sono entrata in MaxMara Fashion Group ne sono uscita dopo 16 anni con le stesse problematiche di un veterano del Vietnam. Altri lavori, altri successi ed altri conflitti fino al magico colpo di fulmine con il teatro d’improvvisazione e classico. Vivo per il teatro. Come tutti ho i miei hobbies e tra loro la scrittura, generalmente brevissimi racconti di stampo ironico/autoironico. Altro di me non vi saprei narrar, sono la vostra Enrichina che ora vi viene ad importunar… (Povera Bohème)

 

 

 

 

 

 

 

 

Quanta nebbia ho respirato per riempire il vuoto
lasciato dalle tue risate;
quanta neve ho mangiato
per raffreddare il ricordo di te e
quanti occhi ho scrutato cercando i tuoi.
Ho dimenticato tutto e tutti, il mio stesso nome,
ma il tuo no, perché è come sole che dà senso
alle mie albe e ai miei crepuscoli.
Quanta pioggia ho bevuto per dissetare la speranza e
ancora piove.

 

 

 

 

 

 

 

 

La dolce morte

Si accese la luce, sentì due occhi che la cercavano distrattamente, senza un vero perché.
Un trasalire fugace l’assalí poi… ancora il buio.
«Son salva per ora» si disse, ma era pienamente consapevole di esser rimasta da sola.
Un sordo rumore, e ancora la luce;  cercò di sembrare poco attraente, ma sapeva di esserlo ancora. Dolce, vulnerabile, fragile perfino al tocco di un bimbo.
Ormai la sua fine era scritta, pensò rattristata ed infastidita da tutta quella luce.
Quando la rassegnazione l’aveva ormai stordita, di nuovo il buio.
Esausta e stremata cercò di sistemarsi alla meglio.
Sentiva sopraggiungere la morte… ma voleva apparire ancora bella agli occhi di chi stava decretando la sua fine.
Così fu: di lì a poco la luce, uno sguardo voglioso, due mani di donna, sottili ma forti, l’afferrarono…
Le rimase solo il tempo di udire un ultimo crudele commento: «Antó sò furnute e sfugliatelle ricce».
Buio.

 

 

 

 

 

 

 

Quando e quanto

 

Le immagini e le voci di un film qualunque, scorrono sullo schermo del mio televisore. Chissà di che tratta.
In verità, poco mi cala del contenuto: i miei occhi seguono le scene con lo stesso interesse che avrei verso le istruzioni per costruire uno Stealth*.
È come se fossi entrata in un mondo parallelo…  Dio mio sono Matrix?!
No.  Mi accorgo che sono sempre io, ma sdoppiata.
Vorrei urlare: «Mettiamoci tutti al riparo, c’è un’altra me in circolazioneee!» ma Lei, (l’altra me), tappandomi  la bocca, mi dice di ascoltare. Io, con gli occhi al limite dello spalancato, taccio, e vedo di assecondarla.
Fissandomi, mi dice: «Tu sei schiava di due semplici parole, lo sai?».
Io dissento, scuotendo la testa. Lei riprende la filippica: «Quando la smetterai di chiederti quando, allora saprai anche quanto!».
Io mi riprendo dallo stupore e prendo la parola: «Ma che stai blaterando, di che parli? Non capisco».
Lei si volta, per fulminarmi con quello sguardo che, diciamo la verità, conosco bene perché è il mio, e mi apostrofa con un “non cambi vero?”;  poi continua: «Neanche davanti all’evidenza dei fatti! Bella mia, gli occhi non servono solo per vedere, ma anche per sentire, e ti ripeto: smettila di voler conoscere “il quando”, e forse troverai “il quanto”».
Porca vitella! Proprio in quel momento, una stupida pubblicità, irrompendo,  mi riporta allo schermo del televisore, e lei svanisce.
Io, dopo uno o due veloci batter di ciglia, capisco il messaggio.
“Il quando” e “il quanto” sono gli avverbi che più influenzano la mia esistenza e, da quel che vedo, influenzano molto anche quella di tanti altri.
Non ci diamo pace, vogliamo avere le redini del tempo e cerchiamo attraverso “il quando” di anticipare le mosse del destino; ma usiamo, o forse non usiamo affatto, “il quanto”. Tale mancanza ci fa sfuggire la vera qualità della vita, non ci permette di stabilirne il peso. Di conseguenza neanche la vita degli altri, per noi, ha valore.
La domanda, allora, sorge spontanea: si può affermare che il “quando” sia la nostra parte terrena, umana e materiale, e il “quanto” quella  più spirituale, la parte naif e pura, (o quasi), dell’essere umano?

* Aeroplano realizzato con tecnologie che lo rendono invisibile ai dispositivi di localizzazione.

 

 

 

 

 

 

 

Patrizia Burra

Opera Ominia: Io

Non so se quell’anno corresse o camminasse, di sicuro so che era il 1958, ed era uno splendido tardo e caldo pomeriggio di giugno, quando la mia mamma pensò che era giunta l’ora di togliersi quel peso di dosso che si portava dietro da nove mesi.
Povera donna forse mi odia ancora per il dolore assurdo che deve aver provato nel far uscire una bambolina di  sei chili  da quella parte del corpo dove anche un microscopico calcolo renale sembra un armadio 4 stagioni in massello massiccio in noce nazionale.
Dolori a parte, era felice di quell’evento, logicamente e, anche se può sembrare assurdo, anche io lo ero, eccome!
Ho scoperto che ogni anno, lo stesso giorno, si faceva una gran festa per ricordare quella data e, malgrado il ricordo del dolore fosse, secondo me, ancora ben presente nella mente della mia mammetta, lei mi ha sempre riempita di regali, attenzioni e “tanto ammore”.
Le cose sono un po’ cambiatucce con gli anni…
Pensate che il problema fossi io, vero? Beh, ad onor del vero, si! La bambolina cicciottina si era trasformata in un maschiaccio ribelle ed irrispettoso, avete presente “Giovani principesse del foro crescono”? Ecco, così! Infatti tutti pensavano e si auguravano ch’ io potessi davvero diventare una toga nera affermata, ed entrare a far parte della”Casta ” per eccellenza degli avvocati di grido.
E grido fu, ma di sconforto che, all’unisono, i miei genitori buttarono fuori a pieni polmoni, quando scoprirono che da tre mesi non frequentavo più il Liceo Scientifico.
Ma io dico: perché i proff non si fanno i fatti loro? Proprio non lo capisco!
Vi evito la narrazione di ciò che avvenne a seguito di questa scoperta che alcuni presenti definirono la madre di tutte le scoperte.
E gli anni successivi, questa volta sono certissima, correvano eccome, e di colpo mi sono ritrovata con il cuore spezzato da un amore finito, e un altro e un altro, da una capoufficio stronza, da amici infedeli, da amiche ancora più infedeli e leggermente mignotte.
E poi, il grande evento, il topo dei topi degli eventi: la morte di mio padre.
Mio padre sembrava essere eterno, un vero e proprio highlander, era scampato a tante malattie ed incidenti e come per ogni legge di Murphy che si rispetti,  lui è morto così all’improvviso senza motivo, pur essendo scampato a due tumori al fegato, poi  totalmente regrediti.
Gli esperti hanno sentenziato: arresto cardiocircolatorio!
La morte non recede purtroppo, e allora? Benvenuti a Villa Tragedia!
E nel giorno in cui Cristoforo Colombo scopriva l’America io scoprivo come potesse cambiare totalmente la vita di una persona: Io medesima stessa.
Io non sono risultata diversa dagli altri, ho incominciato ad apprezzare il mio papà dopo la sua scomparsa.
Un classico, come la Milano- San Remo, un Giallo Mondadori o il tubino nero per le donne, insomma il must dei must. Ma come si dice, non tutti i mali vengono per nuocere, e mio padre è diventato per me l’uomo incompreso da una figlia stronza che cercava il suo affetto e che non era ancora abbastanza aperta di cuore per accettare quello che lui le dava attraverso i pochi gesti affettuosi o le risposte chiuse o addirittura i lunghi silenzi.
E allora piangi sul latte versato, e ti giudichi pesantemente, e cerchi di riscattarti ai suoi occhi.
Come San Paolo sulla strada di Damasco, fui folgorata da una consapevolezza pazzesca: amavo mio padre ancora più di quanto potessi mai immaginare. Ne fui talmente colpita da non riuscire più a fermare quelle lacrime che pochi giorni prima erano uscite per un motivo quasi opposto all’amore.
Sono passati, belli belli, tre anni, da quel giorno, ed eccomi qui, a dirvi di me.
Eh si, 57 anni quasi e non sentirli! Una fantasia galoppante, attrice di teatro sconosciuta ai più e forse oltre ma con un incredibile talento naturale. Ciocciottella come la bambolina di tanti anni fa.
Come concludere?
Il perdono è l’arma più potente al mondo.  Peccato che i “Potenti” non se ne rendano conto o preferiscano far finta di niente.
Grazie papà di avermi lasciato questo grandissimo dono. Esso  mi ha resa più forte e più libera.

 

 

 

 

 

 

 

Hot line

Parto con le vocali, tutte accompagnate da tante belle acca. Ne uso in quantità industriale, in particolare mentre mi sto facendo la manicure. Quando ho finito le vocali e le acca, passo a dei “sì” che sembrano infiniti e a dei “no” che sembra vogliano dire sì.

Rumori di sottofondo.

Spreco i “tesoro” come fossero cleanex, i “bello” non li conto neanche; e come farmi mancare dei sani aggettivi e pronomi possessivi? Mi sento un dizionario al quale hanno bruciato il 90% delle pagine e, tra un sospiro ed un singhiozzo soffocato, penso alla mio master conseguito alla Bocconi e stiro i grembiulini per la scuola della mia bimba.
“Che lavoro fai?” mi chiedono in molti, ed io vorrei rispondere che salvo il mondo dalla crisi economica grazie alle mie competenze Bocconiane…  invece indosso il mio sorriso beffardo migliore, alzo gli occhi al cielo e butto lì
un semplice 199…
Uuuhhh, ooohhh, aaaahhh! Ma tè guarda che s’ha dà fà pé campà!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Omicidio a luci rosse

«Accidenti!» gridò buttandosi esausta sul pavimento. In quella afosissima notte di luglio, Giulia si rese conto di aver commesso lo stesso gravissimo errore di molti anni prima e, seduta sul pavimento fresco della sua camera, sudata, con le mani fra i capelli, iniziò pian piano a ricordare, sempre più chiaramente, la scena di quando, ancora giovane e incosciente aveva commesso quella stessa, identica mossa falsa che le sarebbe costata non poco. Aveva, infatti, dovuto ridipingere la parete di quel meraviglioso colore: terra di Siena bruciata; un occhio della testa le era costato!
Ricordò perfettamente che la stanza in cui si trovava era illuminata da tante piccole luci rosse soffuse, che conferivano all’ambiente un’aria peccaminosamente rilassante. Anche allora imperversava l’afa e sentiva che il suo corpo era umido come Saigon in piena stagione dei monsoni.
D’un tratto si sentì minacciata, sentiva che in quella stanza stava per essere aggredita. Era tesa come una corda di violino, con tutti i sensi acuiti dallo stress del momento.
«È assurdo» si disse, tornando al presente.
Si alzò, bevve un bicchiere di latte freddo e, ancora una volta, rivolse lo sguardo al cadavere, che giaceva lì, di fronte a lei, senza più un alito di vita, in una pozza di sangue. Già sangue!
Si fece forza, prese dell’alcool, un panno di cotone e cercò di eliminare ogni traccia di quell’efferato delitto.
Mentre puliva, un pensiero, detto ad alta voce, attraversò la stanza dalle luci rosse: «Moriammazzata, stupida zanzara! Mò vatte a ciuccià er sangue de tu sorella!».

 

 

 

 

 

 

Ercole ma che fatica

Si fermarono a guardare in alto e capirono che c’era ancora tanto da fare! A passo veloce si avviarono al loro studio per definire quelle che sarebbero state le modifiche sostanziali per la buona riuscita del progetto.
A notte fonda si svegliarono, come programmato, presero tutti gli attrezzi, e via, alla conquista di quella che sarebbe stata una vera e propria impresa colossale.
«Eccoci, siamo arrivati Arturo, sei pronto?»
«Come non mai Ercole, come non mai!»
«E allora, amico mio, diamoci dentro! Mancano otto fottuti gradini a quella enorme, gigantesca dispensa. Dai, monta sulle mie spalle, poi mi tirerai su e così fino alla meta!».
Dopo otto gradini, stanchi, ansimanti, e allo stremo delle forze, si scambiarono una lunga occhiata di compiacimento; poi Arturo, guardando la tanto agognata meta, con un filo di voce, si rivolse all’amico : «Ercole, ma che fatica la vita di noi formiche!».