Sintobiografia e sintoscritti di Gaetano Cubisino Di Geronimo

cubisinoTratti biografici di un contadino.
Sono nato a Grammichele (CT) il 18 Agosto del 1941.
Ho il diploma di Perito Agrario, conseguito nell’Istituto Agrario San Placido Calonerò di Messina.
Sono stato Hippy e per due anni in India, ad Aurville e a Pondicherry.
Sono sposato con una “Santa Donna”, ho tre figli e quattro nipotine. Vivo a Caracas da quarant’anni.
Ho fatto il casaro, fondato un caseificio e per venticinque anni, ho fatto mozzarelle e provoloni. Attualmente in pensione forzata, per vari motivi, ho iniziato a scrivere i miei ricordi, nei quali si può trovare un insieme di espressioni, sintattiche e grammaticali, in italiano, in siciliano e in spagnolo. La mia gratitudine e il mio ringraziamento vanno alle mie amiche, che mi aiutano a mettere un po’ di ordine nel guazzabuglio dei miei scritti.

 

 

 

 

 

 

 

 

Recidere è uccidere.
Quando regalate fiori recisi regalate morte e violenza.
Se donate una pianta, regalate amore e vita.
Non uccidete, non recidete i fiori perché sono amore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono un’ombra che vaga senza padrone

Lo seguivo fedele passo a passo
Testimone silente delle sue andanze e avventure
Non so quando né come
ma un giorno lo persi e mi ritrovai solo
Ora vado alla sua ricerca per deserti e montagne
Solo, attendo una notte senza luna
per dissolvermi nel buio.

 

 

 

 

 

 

 

Eroi dimenticati
Dal web

Dal web

 

 

«Oggi lavoro!» questo penso pedalando in fretta per giungere in tempo al cantiere.
Oggi lavoro, mi sento felice; dopo tre anni di disoccupazione, grazie a Giuseppe, mi hanno chiamato.
Un anno in cassa integrazione e poi il baratro.
Avevo venduto l’auto poi, finiti i soldi, sopravvissuto con piccoli lavori in nero, lavando i pavimenti e i bagni di un ristorante, dieci euro e un cartoccio di avanzi da portare a casa.
Avevo impegnato le fedi e la catenina d’oro di Concetta che mai aveva pianto tanto.
Già, era la fine, ci avevano notificato lo sfratto; ma ora, grazie a Giuseppe, mi hanno chiamato, certo un lavoro in nero, ma che c’è più nero della fame?
Pensando tutto questo giungo al cantiere. Ho tre euro che mi tintinnano nella tasca, gli ultimi, basteranno per un panino e un bicchiere di latte.
Trenta euro al giorno, che fortuna la mia!
Oggi chiederò a Giuseppe venti euro in prestito, comprerò qualcosa da mangiare per portarla a casa, due pasticcini con la crema, che piacciono a Concetta. Succede da tanto tempo che al ritorno a casa, la sera, quando mi vede a mani vuote, con lo sguardo triste mi dice: «Niente?» io rispondo: «Niente».
Ma questa sera, questa sera mi sorriderà, questa sera faremo all’amore.
Giungo al cantiere, l’ingegnere mi dice: «Vai al decimo piano, aiuta Giuseppe, lui ti dirà cosa fare».
Quasi mezzogiorno, fa caldo, si lavora duro, sento la fatica, è da tempo che non lavoro, mi manca l’allenamento.
«Prendi quei mattoni!».
Vado. Quando mi chino sento un poco di nausea, mi gira la testa, cerco l’appoggio del parapetto che non c’è. Volo, penso che è bello volare. Sono felice.
Un urlo, un tonfo.
Non sento nulla, neanche un po’ di dolore. Guardo il sole:
«Che bello il sole, oggi lavoro!».
Sento un po’ di freddo, chiudo gli occhi, mi sento felice e ho voglia di cantare, chissà cosa dirà Concetta questa sera, quando…

 

 

 

 

 

 

 

 

A Pascal

Da bambino chiesi se le farfalle avessero un nido, mi risposero: «No! Le farfalle volano libere e fanno all’amore sui fiori». Poi vidi una farfalla impigliata in una ragnatela, delicatamente la liberai, un ragno nero e uno rosso stavano a guardare. Libera, lei volò intorno alla mia testa, poi si posò sulla mia mano, un fremito d’ali e spiccò il volo verso il sole. Si perse nella sua luce.
Cosa c’è di più triste che vedere una farfalla morta? Cosa c’è di più triste che vedere morire la libertà?

 

 

 

 

 

 

 

 

L’eterno cappotto

Da ragazzino ebbi lo stesso cappotto, dai sei ai tredici anni.
«Questo ragazzino ha bisogno di un cappotto» sentenziò zia Giovannina «Domani andremo da Frette e gliene compreremo uno».
L’indomani, dopo che la signorina Tina mi ebbe strigliato nella vasca da bagno e pettinato con succo di limone, vecchio e infallibile fissatore per capelli che seccandosi li rende tesi come i chiodi, (ma faceva ardere gli occhi), messe le scarpe buone e ricevuto il monito : «Ora seduto, si ti movi ti capuliu» (“se ti muovi ti trito come la carne”). Tutti pronti, finalmente partimmo, con la nuova Aprilia.
Zio al volante, zia a lato dietro la nonna, un cugino che doveva andare a Catania, la cognata, la signorina Tina ed io.
Il viaggio a Catania era sempre un’avventura per me.
Caldo tremendo, la nonna gridava sempre “Chiudete i finestrini, c’è corrente!”.  Mio zio mugugnava a bassa voce, credo che bestemmiasse, anche se lo avevo udito farlo solo una volta, durante un discorso di Fanfani alla radio.
Arrivammo: grande negozio con alte scaffalature in legno lucido, piene di panni e stoffe.
«Un cappotto per il bambino» disse la zia alla bella e giovane commessa «Ché sia buono, deve durare».
Mi fecero salire su un banchetto di fronte a degli specchi; l’immancabile scappellotto: «Tu non fare smorfie!».
Arrivò la commessa, portava tre cappotti.
Il primo mi giungeva alle ginocchia.
«Troppo piccolo, i ragazzini crescono e deve durare».
Il secondo: «Troppo chiaro, questo lo sporcherà a treza nisciuta». (la terza volta che lo indosserà).
Arrivò quello che a loro sembrò giusto, me lo indossarono, largo di spalle, ero magrolino, largo di maniche.
«Si possono accorciare, si mettono dentro e poi a poco a poco si allungano».
Mi arrivava alle caviglie. Due strattoni alla cintura e… «Visto? Ora gli sta meglio!»
Con un cappotto, in Agosto, in Sicilia? Sudavo come un rubinetto spanatu.
Mi guardai allo specchio, sembravo una tartaruga, il collo magro e la piccola testa che fuoriusciva dal grande colletto.
Allo specchio vidi mio zio che con sorriso ebete, carezzandosi i baffetti, guardava le generose forme della commessa, quando questa si chinava per tentare di aggiustare il cappotto; zia Giovannina se ne accorse e gli disse:
«Tu esci, poi ne parliamo a casa».
Così senza nessun aiuto rimasi solo con le donne.
«Sta bene, prendiamo questo, tanto poi crescerà».
Non crebbi con la velocità desiderata, forse fu il peso del cappotto a frenare la mia crescita.
I primi tre anni crebbi poco, poi al quarto e quinto anno la lunghezza del cappotto fu quella giusta. Il dramma accadde al settimo anno, crebbi tanto che il cappotto era divenuto una giacca, le maniche mi arrivavano quasi ai gomiti e abbottonarlo era un’impresa.
Mi vergognavo a metterlo e un giorno al ritorno dalla scuola lo gettai dal ponte della ferrovia, cadde su di un vagone e partì per un viaggio senza ritorno.
«E u cappotto unn’è» (“E il cappotto dove sta?”), l’urlo della zia fu assordante.
«U persi» (“l’ho perduto”); e sotto una serie di scapaccioni e domande: «Dove? Come? Come si può perdere un cappotto? Era quasi nuovo!».
Fui castigato per giorni, non potei uscire a giocare, ma ero felice, mi ero liberato dell´eterno cappotto.
La nonna disse: «Ora bisogna comprarne un altro» e la zia di rimando «Per quest’anno niente, ora viene la primavera». Eravamo in Gennaio.
«Poi a settembre andremo da Frette e ne compreremo un altro!» aggiunse.
Quello fu il mio secondo cappotto, ma è un’altra storia.
Mai ho odiato tanto una cosa, come quel primo cappotto.

 

 

 

 

 

 

 

 

La serenata

Nel silenzio della sera, già smorzati i rumori e il vociare dei vicini, tutte le porte e i balconi chiusi, si udì una musica; prima lontana, poi sempre più vicina, fino a quando il gruppo dei musicanti si fermò sotto il balcone di Donna Maria.
Giannina, la più piccola delle sorelle, urlò, – Na´serenata!! Concettina, è per te? – .
Concettina, temendo che la madre la fermasse, corse, aprì subito il balcone e si affacciò: nel mezzo della strada, illuminata da un lampione a gas, stava un giovane che, vedendo apparire Concettina, si tolse la coppola e accennò un inchino.
«Sdisunurata, trasi e chiudi u balcuni!» (“Disonorata, entra e chiudi il balcone”), gridò Donna Maria, mentre afferrava Concettina per il vestito e la tirava dentro casa.
Nel chiudere il balcone batté con forza le ante, come per significare un rifiuto.
La musica durò per alcuni minuti, poi si affievolì, con l’allontanarsi dei musicanti.
Don Tano si alzò, fece per mettersi la giacca e uscire, ma…
«Tu fermo! Dove vai? Assettati e mutu! Queste cose le aggiusto io!» sentenziò Donna Maria.
«Cu je? Unni u canuscisti?» (“Chi è? Dove lo hai conosciuto?”), gridò alla figlia.
«Disonorata, zivittula, e di che ridi?» (“Disonorata, cattiva donna, perché ridi?”).
Concettina e Giannina, sedute in un angolo della cucina, rosse in faccia, sorridevano.
«Tutte e due castigate, senza mangiare e a letto!» seguitò Donna Maria col suo monologo.
Don Tano cercò di dire qualcosa ma venne zittito.
«Tu non dire niente, domani vado da Don Alfio il senzale, lui aggiusterà tutto.».

 

 

 

 

 

 

 

Dieci settimane, un giorno – Sfiga
Picphotos

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Mi svegliai con un terribile mal di testa e, aprendo gli occhi, vidi luci soffuse e un trespolo da cui pendevano sacchetti e tubi di plastica.
Portai le mani alla testa e sentii che era bendata: «In ospedale? Che ci faccio qui?».
Pochi istanti di confusione e ricordai. Tutto era cominciato quando mia suocera, con un ghigno malevolo e satanico, mi aveva fatto gli auguri di buon compleanno.
«Ma se mancano settantuno giorni?» le dissi. Al che lei rispose: «Dieci settimane e un giorno» e andò via, lasciandomi pensieroso.
Il Vudù aveva funzionato.
In quel periodo mi era già accaduto di tutto: perso il lavoro, mia moglie mi aveva messo alla porta, l’automobile rubata e Equitalia mi aveva sequestrato l’alloggetto al mare, che tanti sacrifici era costato… proprio là avrei voluto rifugiarmi.
Giunto a Vernazza, scesi dalla corriera con la piccola valigetta, dove avevo rinchiuso le mie cose, mi recai al molo, dove stava ancorata la mia barchetta e non la vidi: era affondata con l’ultima forte mareggiata.
Rimasi sul molo e sedetti su una bitta, senza accorgermi che era sporca di grasso e nafta; erano gli ultimi pantaloni di lino bianco che avevo. Rimasi seduto, la valigetta ai miei piedi.
«Manca solo che una balena m’inghiotta! Tanta sfiga neanche Giona la ebbe!».
Il cielo si fece scuro, nuvole nere e lampi; cominciò a piovere a dirotto. Io, allora, salii sulla bitta, sfidando il cielo e sperando che un fulmine mi colpisse, ma scivolai sul grasso e cadendo, battei la testa.
Ora ricordavo: dieci settimane e un giorno, oggi era il mio compleanno!
Si aprì la porta ed entrò una bellissima donna, con indosso un camice bianco. Rideva.
Io ricordai quel sorriso: «Rita, sei tu?».
Era proprio lei, mia compagna dell’’università; io la ricordavo magrolina, nervosa, brufolosa, grossi occhiali da vista. C’era stato un solo incontro con lei e un bacio. Ora, una stupenda donna.
Lei mi rispose sorridendo.
«Si sono io, ti ho in cura nella mia clinica. Bella testata! Che ci facevi sul molo durante la bufera?».
Raccontai…
Alla fine lei mi disse: «Io vivo sola. Domani, quando ti dimetterò, potresti venire a casa mia, avremo tanto da raccontarci… potremo ricominciare».
Parlando faceva le corna, per scongiuro.
«Ah! Dimenticavo di dirti che i pantaloni sono rovinati, la tua valigia è caduta in mare. Ti riceverò nudo come Adamo. In giardino ho un bellissimo albero di mele!».
Poi, chiudendo la porta aggiunse: «Oggi è il settantunesimo giorno, il tuo compleanno. Per favore, non bruciare la clinica!».

 

 

 

 

 

 

 

L’ alchimista

Mischiare i colori,
per dipingerne nuovi.
Mischiare le linee,
per cambiare prospetti.
Mischiare le parole
per cambiare i racconti.
Mischiare le note,
per cambiare le armonie.
Mischiare le stelle,
per farne una nuova.
Mischiare le religioni,
per fare il mio Dio.
Mischiare i ricordi,
per farli svanire.
Mischiare le vite,
per fare la mia.
Dimenticare: per rinascere.

 

 

 

 

 

 

 

Ma tu mi vuoi bene? Dimmi, ma tu mi ami?

Sdraiata sul divano, con la testa poggiata sulle mie gambe, mi guardava con gli occhi spalancati, come una capretta prima di Pasqua.
«Ma allora mi ami? Dai, rispondimi!».
Il quarto uomo solleva il cartello che indica quattro minuti di recupero, perdiamo uno a zero, quattro minuti e sarebbe stata l’eliminazione dalla coppa.
«Avanti, dimmelo che mi ami!» alzó il braccio e mi diede un pizzico sulla guancia.
Lei era sempre così, insicura, non aveva nessun motivo per esserlo.
L’avevo conosciuta tre anni prima, uscendo dal bar dove festeggiavamo la promozione in serie A della mia squadra. Bella, biondina, occhioni blu intenso, esile ma ben formata; al primo sguardo ci innamorammo, io brillo ed euforico la invitai a casa mia, lei accettò. L’indomani venne ad abitare con me.
Così era successo, senza conoscerci, senza parlare.
«Dimmi, per favore dimmi, tu mi ami?»
Ancora due minuti, Taralli a Marchetti tacco di Marchetti Giusti entra in area dribbla Van Krausen Strudel entra a gamba tesa: rigore.
L’arbitro non ha dubbi, rigore, cartellino rosso, rigore!
«Dimmi ti amo, dimmelo, perché non me lo dici?»
Taralli aggiusta la palla, rincorsa…  «Dimmelo, dimmelo!»
Tirooo! Fuori. Eliminati. Tutti a casa…
Saltai dal divano, la strinsi al collo, che cedette, mi guardò e non capì…

«Signor commissario, non ho colpa, lei che avrebbe fatto al mio posto?».